Amok
Stefan Zweig
Adelphi
Euro 9,00
Amok è una parola malese. Indica «una follia rabbiosa, una specie di idrofobia umana... un accesso di monomania omicida, insensata, non paragonabile a nessun’altra intossicazione alcolica». Lo sa bene la voce narrante di questa tesa novella – un medico dai tanti conti in sospeso: con la giustizia, con la professione, con la propria vita ormai annientata. E su una grande e rumorosa città natante che fende l’Oceano Indiano, e ricorda la non meno fatale nave della Novella degli scacchi, una confessione simile a un delirio ricrea davanti ai nostri occhi un mondo coloniale che «divora l’anima e succhia il midollo dalle ossa», scatenando forze capaci di scardinare in un attimo ordinate esistenze. Un mondo febbrile dove si scontrano la protervia di una donna di imperiosa bellezza, convinta che tutto si compri col denaro, e la divorante passione di un uomo cui i tropici e la solitudine hanno sviato la mente e i sensi. La nave va verso un’Europa ormai crepuscolare, verso una conclusione ineluttabile, lontano dalla giungla e dalla città d’acqua in cui i due hanno giocato una partita dall’esito segnato sin dal primo incontro: «Nel giro di un’ora, da che quella donna era entrata nella mia stanza, mi ero buttato la vita alle spalle lanciandomi alla cieca nel furore dell’amok».Apparsa sulla «Neue Freie Presse» nel 1922 e, lo stesso anno, nel volume Amok. Novellen einer Leidenschaft, questa novella è stata portata sugli schermi nel 1927 negli Stati Uniti e nel 1934 in Francia.
L'insostenibile leggerezza dell'essere
Milan Kundera
Adelphi
Lire 15.000
Il suo romanzo ci dimostra come nella vita tutto quello che scegliamo e apprezziamo come leggero non tarda a rivelare il proprio peso insostenibile. Forse solo la vivacità e la mobilità dell'intelligenza sfuggono a questa condanna: le qualità con cui è scritto il romando, che appartengono a un altro universo da quello del vivere.
Italo Calvino
Retro di copertina
Bravi soldati
David Finkle
Mondadori - Strade Blu
Euro 17,50
Nessuno che parte per la guerra torna a casa tutto intero. In questo libro potente e commovente su un battaglione della fanteria statunitense a Baghdad nel 2007-2008, David Finkel, reporter del Washington Post e premio Pulitzer, riesce a dimostrare meglio di chiunque altro perché la guerra in Iraq segnerà a vita i soldati che l’hanno combattuta. I bravi soldati è un racconto eccezionale di quello che il conflitto ha fatto agli 801 uomini e donne di un battaglione statunitense. Scritto con maestria, il libro è anche una lettura rapida e coinvolgente. Finkel rende conto caparbiamente, senza dare opinioni personali e con attenzione ai minimi dettagli, del terrore e del dolore dei soldati, della loro vergogna e del loro orgoglio; riesce a catturare anche l’umorismo che affiora sempre quando gli uomini sono vicini alla morte.
Ma I bravi soldati è soprattutto un libro profondo che apre gli occhi e pugnala al cuore. A differenza di tanti libri scritti da giornalisti che sono stati in Iraq o in Afghanistan, Finkel non mette se stesso nel racconto, e questa tecnica fa sì che il suo libro sia appassionante come un romanzo. Ogni capitolo si apre con la citazione di qualche frase pronunciata da George W. Bush all’epoca dei fatti raccontati nelle pagine seguenti, e questo mostra che la retorica politica faceva a pugni con la cupa realtà dei soldati impegnati sul campo di battaglia.
Jon Swain
The Times
Generazione A
Douglas Coupland
Isbn
Euro 15,00
Douglas Coupland, zeitgeist chronicler, furniture designer and defender of the Helvetica font, may or may not be interested in saving the world. But in his 11th novel, “Generation A,” he not only addresses our contemporary spiritual malaise — one brought on in part by information technology, vapid pop culture, environmental disregard and all the trade-offs humans have made in giving up connection for connectivity — he also offers us a form of salvation: the story.
“Generation A” (the term comes from a Kurt Vonnegut quotation) is not a sequel to but rather a thematic wink at Coupland’s first novel, “Generation X” (1991), about young slackers experiencing postindustrial fin de siècle ennui and sitting around telling stories. That novel kicked off both Coupland’s career and — to his ire — a global media frenzy and commodification orgy. From the beginning, Coupland’s novels have explored the vertiginous acceleration of culture as it intersects with media and technology, as well as the impact of those forces on a disaffected subgroup of drifters and eco-freaks, teenagers and young adults, dropouts and designers, programmers and cubicle inhabitants, gamers and geeks. All of it is rendered with the paradoxical combination of empathy and irony that marks Coupland’s work. And “Generation A” is no exception.
Narrated by five characters who begin as strangers and come from five different parts of the world, the novel is set in a near future when bees are thought to have become extinct. A global “pollination crisis” results, and “a six-ounce bottle of 2008 Yukon fireweed honey” now fetches some $17,000 at Sotheby’s. Also extinct are heroin addicts, because, of course, “poppies require bees.” Instead, a sinister prescription drug called Solon has filled the gap, treating anxiety by blocking thoughts of the future.
The novel opens with five separate but highly publicized incidents: its narrators are all stung by bees. Each narrator is immediately captured by thuggish government agents, then detained in isolated research facilities and forced to undergo testing to discover what attracted the bees and what portent that might hold for the ailing environment. Once the five are finally released, they discover that their stings — as well as the Internet — have turned them into global celebrities. Fame is their new detention cell.
In the glare of the spotlight, with no one to trust but one another, the five are called together by an enigmatic scientist named Serge, who takes them to a remote island off western Canada and, once there, announces: “Our goal here is for the group of you to make up stories and tell them to each other.” Nearly all of the second half of the book is given over to those stories, which appear as they might in an anthology: in a smaller typeface, with the author’s name listed beneath the story title. These tales do little more than refigure events we’ve already witnessed (e.g., a character’s parents disclose their nihilism) or hijack a plot we’ve begun to mistrust. The book stops being a novel about five struggling characters and becomes a collection of short stories written by those characters (who, it quickly becomes obvious, are not writers). By strong-arming his story-within-a-story concept to enact formally the very salvation he’s endorsing, Coupland ends up losing control of the plot we’ve been following for half the book.
For a novel concerned with the saving power of story, “Generation A” turns out to be remarkably slight on narrative. Coupland’s mission is admirable, but his meta methods fall short. Whatever it is we enjoy about stories, we enjoy them because we forget they arestories. We have given ourselves over to something greater than mere form. And, no matter how cleverly you try, if you point that out to us, you break that fragile spell. End of story.
Joseph Salvatore
New York Times